#lettidavoi: Carcere
Quasi una riforma, quella illustrata in questo breve ma efficace libro scritto da Silvia Cecchi, magistrato. Oltre a esporre
i mutamenti dell’istituzione carceraria nel corso dei secoli, il volume ci presenta una riflessione approfondita che propone
un rinnovamento di tutte le strutture penitenziarie, le quali hanno ormai preso caratteristiche unicamente punitive e detentive
(«che il carcere sia una pena corporale è dato di fatto acquisito»), con il solo risultato di allontanare il reo dalla società.
In “Carcere” (Liberilibri, 70 pagine, 14 euro) si sottolinea il problema che sorge quando la «pena totalitaria (…) identifica
l’atto illecito con la persona intera di chi l’ha commesso», situazione che non dà in alcun modo spazio a un cambio o a un
miglioramento del suo comportamento. Secondo la Cecchi, infatti, la detenzione come la intendiamo noi oggi «favorisce la
regressione e crea le premesse non solo di una recidivazione del reato, ma anche della sua trasmissione per via culturale e
generazionale». Ecco un’ennesima falla nel sistema, ovvero la diffusione del comportamento deviante in ambito culturale e familiare.
Di conseguenza l’autrice invita a operare nel verso opposto, utilizzando un metodo proattivo, che significa semplicemente concedere
a chi è identificato come colpevole – e dare alla società di cui fa parte – un futuro migliore. Si deve puntare perciò a modificarne
le abitudini e i comportamenti criminali, al fine di favorire una reintegrazione positiva nella società una volta scontata la pena.
La vita in carcere deve essere in grado di responsabilizzare e far maturare nuove consapevolezze e conoscenze nel detenuto. E sì,
si parla anche di conoscenze, poiché la Cecchi punta molto sull’incremento di istruzione e lavoro in prigione.
Oltre che in ambito lavorativo, l’autore del comportamento deviante deve essere messo in condizioni di sperimentare una condotta di
vita diversa anche nella dimensione relazionale e dialogica. Questo approccio si basa sull’idea che la punizione da sola non sia sufficiente
a ridurre la recidiva, ma che, come riportano numerosi studi, le deprivazioni sensoriale, affettiva e sessuale siano fonte di regressione
delle personalità dei carcerati soprattutto sotto il profilo psicologico, sociale e di mancata integrazione, depressione e poca stima di sé.
Il libro delinea più volte quanto l’istituzione carceraria sia in ogni aspetto negativa, e causa potenziale di malattia e disperazione
del reo al punto che egli può arrivare a violenza auto-inflitta o a gesti estremi come il suicidio.
Di frequente, nello scorrere le pagine, emerge l’importanza di non ridurre le persone a etichette, per il rischio che interiorizzando
esse quell’etichetta finiscano poi per metterla in pratica nella società, ma semmai di considerarle nella loro interezza e dignità.